Le "jungles" della solidarietà

Meting Pot nella Regione di Calais in missione con una delegazione di Migreurop

Domenica 29 novembre 2009 una delegazione di Migreurop composta da membri francesi, marocchini e italiani ha visitato alcune delle "Jungles" che si trovano nella regione di Calais, da dove migliaia di migranti ogni anno (per la maggior parte richiedenti asilo o rifugiati) cercano di raggiungere l’Inghilterra. Si tratta di accampamenti più piccoli rispetto alla Jungle che si trovava più vicina al porto e che è stata raccontata dai media di tutto il mondo durante lo sgombero avvenuto ad opera della polizia francese nello scorso settembre. In questi luoghi, situati vicino a piccoli villaggi in prossimità delle principali stazioni di servizio da cui passano i tir in transito per attraversare la Manica, delle persone straordinarie hanno avviato delle pratiche di solidarietà reale mettendo a rischio la propria libertà personale in nome di un radicale senso di giustizia.

Article pubblié sur le site Melting Pot: http://www.meltingpot.org/articolo15026.html

"Peccato non poterlo portare con me in Inghilterra. Ci sono tutte le mie canzoni preferite".

Rosa stringe tra le sue mani un piccolo ipod nero e continua a parlare:
"Non avevo pensato che le cose elettroniche possono venire intercettate dalla polizia mentre sei nascosto dentro il camion".

Tra poco, infatti, Rosa partirà, o almeno proverà a partire. Si nasconderà come gli altri dentro uno dei tir in viaggio dal porto di Calais verso quello di Dover e tratterrà il respiro sperando che nessuno dei poliziotti alle frontiere la scopra. Forse metterà addirittura la sua testa dentro un sacchetto perché non sia percepibile l’aria che pur dovrà inspirare.
Deve arrivare dall’altra parte della Manica perché laggiù c’è il suo fidanzato. Sono fuggiti entrambi dall’Eritrea dopo dieci anni di servizio militare obbligatorio e lui ha avuto più fortuna perché adesso abita a Londra, è un rifugiato e lì ha trovato un lavoro dignitoso. Rosa, invece, era riuscita ad arrivare solo in Italia, dove aveva dei parenti, ma in quel paese non si era sentita accettata. Avrebbe potuto chiedere e ottenere un permesso di soggiorno ma ha scelto di andare in cerca di un posto che immagina migliore. In questo la sua storia è molto simile a quella degli altri eritrei ed etiopi con i quali divide una delle piccole "jungles" nella regione di Calais.

Molti di loro sono arrivati in Francia con un titolo di viaggio valido, perché avevano già ottenuto l’asilo politico in Italia. Ma un pezzo di carta non basta a fare la felicità delle persone, anche se certamente aiuta.
Erica, ad esempio, ha addirittura un padre con la cittadinanza italiana, oltre che una carta di soggiorno con il timbro della questura di Genova. Dopo due anni, però, in cui l’Inghilterra ha continuato a negarle il visto per il ricongiungimento familiare, ha deciso di raggiungere suo marito che vive e lavora a Londra: una lungaggine burocratica, un errore d’ufficio, la cattiva volontà di un impiegato o la direttiva informale di un governo determinano spesso la vita e la morte di queste persone.

Poi c’è Omid, che dell’Italia ha solo ricordi orribili: le notti passate in strada, nell’indifferenza di Milano in inverno, lo sgombero della polizia dal palazzo diroccato in cui lui e i suoi compagni avevano cercato rifugio, e poi i colpi dei manganelli e la sensazione che lì sarebbe stato impossibile costruirsi qualunque tipo di futuro. In quel piccolo agglomerato di legno e cellophane, a poche decine di chilometri dalla città di Calais, quasi tutti parlano italiano e quasi tutti hanno gli stessi ricordi di Omid. Qualcuno è entrato in Europa attraversando la Libia e poi imbarcandosi alla volta di Lampedusa.
Qualcun altro, soprattutto chi ha compiuto il viaggio dopo la scorsa primavera, ha invece attraversato il golfo di Aden, lo Yemen, quindi la Turchia e poi la Grecia prima di arrivare in Italia. Un tragitto paradossale nel tentativo di evitare la nuova prassi dei respingimenti verso la Libia, dapprima portati a termine direttamente dalle navi militari italiane e più di recente coordinati da Frontex che fa da vedetta nel Mediterraneo e avverte i libici di venire a riprendersi un nuovo carico di vite umane da internare, violentare e deportare per una seconda volta.

Ma c’è anche qualcun altro che nella regione di Calais sta scegliendo. Silenziosamente, senza alcun vanto, come fosse la cosa più naturale da fare. Sono tanti, sempre di più: sono i cittadini dei villaggi vicino ai quali sono sorte le jungles: signore dai capelli bianchi, preti di piccole parrocchie, giovani coppie con i loro bambini, vecchi uomini e ragazzi che nonostante la precarietà della loro vita in un paese di provincia trovano tutti i giorni il tempo per combattere contro l’indifferenza.

Se nei piccoli accampamenti si fa qualcosa di più che sopravvivere, se si riesce a vivere quasi dignitosamente, è solo grazie a loro.
Tutti i volontari che si occupano della piccola jungle dove si trovano gli eritrei e gli etiopi, ad esempio, si muovono intorno all’associazione Terre d’errance.

Tre volte alla settimana c’è un posto dove si può fare una doccia calda, ma anche nelle piccole capanne di legno i bidoni d’acqua sono sempre pieni, perché Papa Claude, un vecchio signore dal sorriso timido e dalle mani rugose, li riempie tutti i giorni e li trascina fino all’accampamento.

Il cibo, pur tra mille difficoltà, non manca, come non mancano le coperte e i maglioni per difendersi dalle temperature invernali che in questa zona sfiorano anche i meno dieci gradi.

Anche nelle Jungles che si trovano nei boschi, e che per raggiungerle, in questa stagione, si deve camminare per decine di metri con il fango fino alle caviglie, è possibile essere invitati a pranzo a mangiare piatti orientali intorno ad una grande tavola con le stoviglie di ceramica e le tazze colorate dove bere il tè caldo. È questo il caso dell’accampamento dove si trovano i vietnamiti, uomini e donne che parlano un inglese stentato, con i quali la comunicazione verbale è più difficile, e quindi entra in gioco un altro tipo di relazione, fatta ancor di più di espressioni corporali, di abbracci per dare coraggio e di sorrisi.

Accanto a loro ci sono soprattutto le persone riunite sotto il nome collettivo di Fraternité-migrants, anch’esse pronte ad esporsi e rischiare per proteggere l’accampamento e i suoi abitanti dalle retate improvvise della polizia e dagli arresti arbitrari, facendo tutto ciò che è nelle loro possibilità per rendere l’attesa dei profughi in viaggio verso l’Inghilterra il più possibile dignitosa.

C’è voluto un po’ di tempo perché, a partire da singoli interventi di singoli individui, questi abitanti della Regione di Calais riuscissero a mettersi in rete, a sentirsi loro per primi meno soli.

Non raccontano ciò che fanno come fosse qualcosa di straordinario: semplicemente, per loro, non è tollerabile che delle donne e degli uomini muoiano di stenti, che vivano come animali terrorizzati.
E non importa se questa solidarietà può costare molto cara: fino a 30.000 euro di multa e fino a cinque anni di prigione. C’è già chi è stato arrestato per avere ricaricato un cellulare, per avere dato un passaggio in macchina, per avere offerto un letto in cui potersi riposare dentro una vera casa almeno per una notte.

Si tratta delle conseguenze penali del "delitto di solidarietà", come è stato definito dalle associazioni francesi che difendono i diritti dei migranti ma anche la propria aspirazione a vivere in una società realmente civile.
In Francia, infatti, non esiste il reato di immigrazione clandestina, ma si è fatto un uso strumentale ed intensivo di quello di “favoreggiamento dell’ingresso e del soggiorno irregolare”. Mentre i passeurs, come dovunque in Europa, agiscono più o meno indisturbati, la legge francese sembra abbattersi soprattutto contro i profughi e contro le persone che vogliono rendere la loro vita meno difficile.


Oltre al coraggio di fare quello che fanno, colpisce in questi cittadini che compongono i collettivi e le associazioni di solidarietà il profondo rispetto per le persone che hanno scelto di aiutare.

Se è prassi informare i migranti delle possibilità che possono trovare in Francia rispetto al diritto d’asilo, nelle parole di chi dà queste informazioni non c’è nessun paternalismo, come nelle loro azioni non c’è nulla di caritatevole.

Il messaggio costantemente rivolto ai migranti è estremamente limpido: “adesso siete qui e finché ci resterete non vi abbandoneremo. Non importa quel che deciderete di fare, quale progetto più o meno razionale stiate inseguendo. Non importa se non riusciamo a convincervi che in Inghilterra non sarà più facile che qui”.

Da tempo, infatti, le leggi inglesi sull’immigrazione e sull’asilo si sono fatte più severe e l’Inghilterra ha smesso di essere quell’El Dorado in cui i rifugiati potevano lavorare e avere anche un sostegno sociale, e in cui i richiedenti asilo già schedati in altri paesi europei riuscivano a sfuggire alle maglie della Convenzione di Dublino che li condanna a chiedere asilo nel primo paese d’ingresso dell’Unione europea.

Lo sanno bene, ad esempio, i ragazzi afghani che dopo avere attraversato la Grecia e l’Italia ed essere arrivati a Parigi cercano sempre più di raggiungere il Nord Europa, spaventati anche dagli ultimi charter franco-britannici che hanno rimandato decine di profughi a a Kabul trattando l’Afghanistan, di fatto, come un “paese terzo sicuro”.
Dalle piccole Jungle di Calais, invece, si continua a partire. I visi delle persone cambiano velocemente, anche se non di rado chi è partito ritorna perché è stato rimandato indietro e qualcuno inizia a farlo anche di propria volontà. Gli accampamenti restano, invece, ricostruiti dopo ogni sgombero, ad accogliere almeno per un po’ le vite e le storie degli altri che verranno.

Le zone di concentramento, questi luoghi di raccolta di migranti in transito che si alternano ai centri di detenzione ufficiali all’interno dei percorsi confinati dalle politiche europee, si trovano disseminati lungo tutte le rotte migratorie.
Tristemente famosi sono diventati quelli di Ceuta e Melilla da cui sono partiti i migranti che hanno cercato, nel 2006, di arrampicarsi sulla griglia di ferra che divide il territorio marocchino da quello spagnolo e sono stati giustiziati dal fuoco congiunto delle polizie dei due paesi.

Sotto i riflettori è stato a lungo il "campo" di Patrasso, coi suoi 2000 afghani di cui tantissimi minorenni dispersi con la forza nel maggio del 2009 dopo che alcuni di loro avevano denunciato alla Corte europea le violenze del governo ellenico e i respingimenti illegali subiti dalla polizia alle frontiere italiane dell’Adriatico che li aveva rimandati all’inferno greco invece di raccogliere le loro richieste di asilo.

Tantissimi altri sono meno noti, come quello che si trova intorno alla stazione Ostiense di Roma o ai giardinetti pubblici del X arrondissement di Parigi.

Difficile dire se intorno a ognuno di questi posti si siano sviluppate o si stiano sviluppando forme di solidarietà e di resistenza paragonabili a quelle che si incontrano nelle piccole Jungles al nord della Francia: molto spesso le persone "normali" che compiono gesti straordinari rimangono nell’ombra e questo le aiuta a potere continuare.

Di certo, però, se qualcuno avesse voglia, in un’epoca di crisi e individualismo come quella che stiamo vivendo, di osservare il coraggio di essere diversi e generosi e di liberarsi dalle paure imposte e dal razzismo strisciante, dovrebbe farsi un giro nelle "jungles" della solidarietà nella regione di Calais.

E se poi chiedesse a uno a caso di questi francesi che aiutano i profughi perché fanno quello che fanno, perché rischiano quello che rischiano, si sentirebbe probabilmente dare una risposta assoluta e in qualche modo disarmante: perché è giusto.